Donna pagata per piangere ai funerali, la “Praefica”

Una tradizione ormai morta col progresso, ormai si vergognano pure a “gettare cuvali amari” tipici di queste donne che piangevano e dir poco ai funerali. Piangevano e “cuvaliavano” su compenso, questi erano i patti! Era un lavoro nulla di più e per poterlo svolgere serviva una gran voce tuonante una serie di singhiozzi che solo alcune donne del Sud sapevano fare e lunghi abiti neri da lutto. Questa figura molto affascinante era presente nella nostra tradizione fino agli anni Settanta, una delle tradizioni più longeve. Figura oltremodo suggestiva, la si scorge su frammenti ceramici attici dell’Avanti Cristo; se ne attesta l’attività nell’Antico Egitto, nella Roma pre e post cristiana (sebbene proibita dalle XII Tavole) e, personaggio sui generis, mercenaria della morte – si direbbe – la “praefica” era solita avere la chioma sciolta, in segno di lutto – e per facilitarne lo “strappo” – graffiarsi il viso, simulare scoppi di pianto, dandosi a lamenti funebri e lodi al defunto durante il corteo, il tutto accompagnato da strumenti musicali. Tutto ha inizio “quandu lentu sona u mortoriu” se u mortoriu veniva preceduto da due colpi intervallati di campana tutti capivano che si trattava di una donna; se i colpi di campana erano tre, di un uomo; se erano cinque di un sacerdote (nu previti); se erano nove dal parroco del paese. Si corre così per preparare la camera ardente, il morto si veste con gli abiti migliori le donne invece con l’abito da sposa. Nella bara venivano inoltre riposti una coroncina del Rosario (i Paternostri) e gli oggetti della quotidianità (pettine, coltello, pipa, rasoio) in modo che, simbolicamente, niente mancasse al defunto anche nella vita ultraterrena. Amici e parenti intorno la bara e poi lei: la donna pagata per disperarsi! Per gli abitanti di Vibo e dintorni erano molto conosciute le ”ciangiuline” du Pizzu. Che brave teatranti le nostre prefiche “Ciangiuline” Pizzitane! Singhiozzi, cantilene, decanto delle virtù. Note di tristezza che avvolgevano abiti scuri e lunghi. La musica è presente sempre, fino alla fine, anche tramite le gesta della praefica. Venivano inoltre ricordati, con interminabili cantilene a più voci, pregi, virtù ed aneddoti particolari della vita dell’estinto. Capitava pure che queste donne arrivavano a strapparsi il viso da cui scendeva sangue e si strappavano i lunghi capelli a mazzi. La donne assoldate erano i ciangiulini du Pizzu che, una volta rese edotte delle abitudini e virtù dell’estinto, si disponevano intorno alla bara e, sciolti i capelli, piangevano e pregavano per la sua anima tessendone le lodi, a somiglianza delle prefiche romane. Il lutto portato dai parenti variava per grado di parentela gli uomini per pochi anni ma le donne per sempre. Gli uomini indossavano camicie e cravatte nere o, in alternativa, un bottone rivestito di panno nero spillato sul risvolto della giacca. Le donne si coprivano con un lungo rettangolo di lana e cotone (u vancali) sotto il quale indossavano a tuvajia e, dalla vita in giù, i faddali, di cui uno veniva utilizzato per coprire interamente il volto. Tutto nelle donne era rigorosamente nero. Perfino il poco oro che portavano (fede nuziale e orecchini) veniva ricoperto di panno nero. Al corteo funebre partecipavano pure le prefiche sostenendosi a vicenda e senza fazzoletto in testa. Il loro agire era caratterizzato da un atteggiamento isterico ed intervallavano preghiere con pianti ed urla strazianti. Molte volte la morte di un uomo sposato arrecava, come ulteriore drammatica conseguenza, la perdita dell’unica fonte di reddito per la famiglia, generalmente molto numerosa. In questi casi la comunità era molto più solidale! Per le prefiche di Pizzo “le celebri buttane di lu perfidu paisi” Ammirà nella Ceceide celebra le virtù di una avvenente fanciulla di nome “CECIA”, qualifica nel modo definito in calce.. Alla morte di questa grande “benefattrice”, ci dice il poeta di Monteleone, tutta la popolazione maschile calabrese era presente al funerale. Vi presero parte persone di ogni ordine e grado, tutti dietro al feretro per l’ultimo addio a chi, in vita, si era tanto prodigata per il prossimo, quello maschile! Al funerale, racconta Ammirà, parteciparono pure trecento pizzitane “ … chi tutte a paga furu misi …”. ‘A MORTI ‘I CECIA …Omissis… Vi’ triccentu pizzitani, chiji a paga furu misi, li chhiù celebri buttani di lu perfidu paisi. Apri l’occhi ca li vidi, Cecia mia, si no lu cridi; e accussì cu fintu affannu laudi a tia cantandu vannu: «Chi si’ beja, chi si’ cara, non c’è para comu a tia, Cecia amata, Cecia mia… Omissis… Nel 1875 , il sindaco di allora comm Marcello Salomone pensò di ridurle al silenzio con un’ordinanza che vietava tali manifestazioni Ma il suo tentativo fu vano poiché le “ciangiulini” a Pizzo perdurarono fino agli anni cinquanta.



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