Ho sempre sentito parlare le mie ave del corredo e soprattutto del tovagliame più pregiato quello in lino. Un mondo davvero sconosciuto per le nuove generazioni eppure un mondo così “candido” che profuma di biancheria stipata nelle “casce”. Un mondo che anche in Calabria oggi è stato soppiantato per dare spazio a quello della produzione di massa, dove l’artigianalità delle donne da marito non esiste più! Mi tuffo in un viaggio a ritroso nel passato prossimo per comprendere meglio gli aspetti del lavoro-fatica, di quelle parole di mia nonna che mi raccontava “ca ricamava u corredu sutta na livara, quandu era in pausa”. Eh si la donna di Calabria sapeva fare tutto e sopportava con orgoglio l’immane fatica, fatica che sapeva spartire con gli uomini nei campi. Le donne calabresi hanno sempre amato le cose belle e ricercate e lo status spesso non era un’ostacolo, e quindi per avere il tovagliame in lino spesso dovevano piantarlo, curarlo, lavorarlo ed infine ricamarlo. In genere erano gli uomini a zappare la terra e a seminare questa pianta che era coltivata in tanti paesi calabresi tra cui Caulonia e San Nicola di Caulonia dove era più diffusa questa piantumazione. Ogni famiglia infatti possedeva l’orticello con il lino, in particolare dove c’erano figlie femmine, per preparare la dota ”FIGGHIJA NTA FASCIA DOTI ‘NTA CASSA”, senza dote, ricche e povere, non si potevano sposare. Il pericolo più grande era per le poverelle che rischiavano di rimanere in casa senza dote. Ma vediamo insieme cos’è questo linum usitatissimum (nome scientifico)? Ne esistono 200 specie ma si caratterizza perché “ama” i posti soleggiati come le terre di Calabria! In estate le donne calabresi raccoglievano il marzuolo piccole foglie e fiori celesti. Dopo l’essiccazione la pianta viene sdradicata, raccolte a mazzetti e battute in cima per recuperare i semi. Poi tocca a “LINUSA” dai suoi semi si ricava l’olio di semi di lino per produrre tele cerate. Ma usati anche per funzioni terapeutiche bronchiti, polmoniti venivano stipate nelle “cofane” e portate nelle “gurne” più profonde per la macerazione. Dopo venti giorni le donne partivano a frotte di buona ora , con le ceste vuote e una piccola “truscia” con il pranzo. Giunte sul posto tiravano fuori i fasci macerati, li pestavano con la mazza di legno su una pietra iniziavano il lavoro di stigliatura o scavezzatura separavano la filaccia dagli steli legnosi, la filaccia era lavata e messa ad asciugare sulle bianche pietre della vallata dell’Allaro. Mentre la filaccia si asciugava , le donne mangiavano, cantavano ed all’imbrunire si caricavano la cofana e rientravano nelle umili case. A casa le donne continuavano il lavoro dovevano manipolare la “stuppa”pettinando il vegetale con un pettine chiodato. Dalla pettinatura si passava alla filatura con il fuso. I manipoli davano un filo più sottile, dalla stoppa si ricavava un filo dozzinale infine si procedeva alla tessitura. Che storie da mille ed una notte!