Tra i tanti gruppi di antichi immigrati in Calabria vi furono i Mesi che, pur discendendo dall’omonima stirpe Daco-Tracia del basso Danubio, nella Provincia detta appunto Moesia, o Mesia, erano poi stati accorpati ai greci del Ponto e, una volta integrati, con essi, giunsero nelle aree interne della nostra regione, nei pressi di Nicotera. Ma essendo stati oppressi dai lucani Bruzi e da altri popoli loro alleati, diedero sfogo alla loro ribellione prima andando a vivere nei campi e compiendo scorrerie e quando ebbero la sufficiente esperienza nelle pratiche della guerra si gettarono nel combattimento col sostegno della popolazione locale, facendosi rispettare. Così fondarono una citta che dal loro sfogo si chiamò Moesianum da cui Mesiano. La città sorse alle falde di un monte che, forse, in omaggio al loro idolo sportivo, si chiamò monte Poro. A poca distanza dal luogo dove sorgevano le fortificazioni della città di Mesiano, sulle falde orientali del monte Poro, verso l’ 850 a.C., al tempo delle incursioni saracene dell’Ixe, che misero a ferro e fuoco il vicino sito di Nicotera , giunse un artigiano di origine ellenica, probabilmente soprannominato in forma dialettale “u filandaru”,nomignolo derivato dal vecchio filatoio di sua proprietà e attrezzo principale del suo lavoro. Costui impiantò una piccola filanda di fibre vegetali e di seta sul fiume Mesima che scorreva nella valle. La piccola Filanda, o Filandaru, fu trasferita da lui, ai suoi discendenti che ingrandirono l’attività che. diede sicuramente origine, in quella zona, ad altre filande. Successivamente, per favorire la residenza in loco dei molti addetti, soprattutto donne, sorse una specie di villaggio gestito dagli impresari della Filanda. Con questo termine erano indicati gli stabilimenti di lavorazione e filatura dapprima della seta e poi anche del cotone. Era un grande edificio a due più piani, coi soffitti alti e dotati di finestroni per garantire l’illuminazione. Costruiti vicino al corso d’acqua, la utilizzavano sia per la forza motrice che per le vasche di trattura. Quella prima filanda era a fuoco diretto: cioè, l’acqua, nelle vasche di trattura, era riscaldata direttamente con fuoco di legna, con uno scarso controllo della temperatura dell’acqua stessa e, di conseguenza, di una qualità del prodotto non ottimale ma, comunque molto buona. L’allevamento dei bachi da seta era affidato ai contadini e ai piccoli mezzadri per la formazione dei bozzoli. I bozzoli erano poi raccolti nella filanda, essiccati in un forno adatto in modo che il calore uccidesse il baco per evitare il foramento del bozzolo con conseguente rottura del filo della bava, e trasformati in filato attraverso dieci fasi di lavorazione. Questo lavoro nella filanda era svolto principalmente da giovani donne, alcune poco più che bambine, che venivano chiamate filerine, o filandere. I turni erano pesanti, potevano arrivare da 12 a 16 ore al giorno con durissimi controlli sulla quantità e qualità del prodotto. Le lavoratrici venivano multate se non rispettavano tali turni o rovinavano il prodotto. Il lavoro era faticoso e malsano, per via dei vapori delle vasche, per le mani tenute a lungo nell’acqua calda ad 80 gradi, per la polvere appiccicosa che finiva nelle narici ed in gola dai bossoli essiccati. E tutto per una paga da fame. Vi erano certamente anche uomini per le fatiche più pesanti come i carichi di legna o la pulitura dei calderoni. Per questo tipo di lavoro il villaggio era detto il paese dei filandari e così, da essi, prese il nome. E Filandari, già casale di Mesiano unitamente ad Arzona, Pizzinni e Scaliti, fu nel corso dei secoli sottoposto a molteplici feudatari. Tra i primi spicca Ruggero il normanno che a Mileto fissò la sua dimora col titolo di conte. Gli succedette il suo terzogenito, anch’egli di nome Ruggero, che nel 1130 fu incoronato Re di Sicilia. Successivamente passò alla famiglia dei signori Roberto, certamente di stirpe reale. Passò quindi all’Imperatore Federico secondo che con la sua illuminata autorità cercò di mettere un certo ordine nei Feudi meridionali emanando delle apposite leggi, secondo i dettami scaturiti dalle famose costituzione di Melfi del 1231 tra gli altri il paese fu ceduto a Seringo che governò con saggezza Filandari, grazie anche alla laboriosità dei sudditi. Tra le famiglie che ressero il borgo si ricorda quella dei San Saverino. In quel periodo infatti, ci fu per lungo tempo pace e giustizia. La dinastia del San Saverino perseguì con Orrigo Ruggero secondo e si estinse con Luigi San Saverino nell’anno 1404.Per contrasti scaturiti con la casa reale di Ladislao, Filandari fu ceduto quindi ai conti di Arena nota stirpe di valorosi condottieri al servizio della Reggina Giovanna seconda. Passò poi, nel 1501, a Giacomo dei Principi di Bisignano, che fu però presto deposto per ribellione, per cui il feudo finì a Diego di Mendoza. Rul Gomez la silvan l’ebbe in dote dal padre, e poi fu a lungo governato da Marzono e dai Pignatelli, Duchi di Monteleone, che lo tennero sino al 1806 anno in cui fu dichiarato libero comune in quanto decaduta la feudalità. La legge Francese elevò Filandari ad “università” ovvero a comune autonomo con giurisdizione sui Casali di Arzona, Mesiano, decaduto, però, dal passato splendore, Pizzinni e Scaliti. Tale assetto amministrativo fu riconfermato anche con legge del 19-1-1807.Il terremoto del 5 febbraio 1783 rovinò molti palazzi gentilizi e varie chiese, alcune non più riedificate. A Filandari con quel terremoto vi furono sei morti e sessanta ducati di danni; ad Arzona nessun morto, ma l’abitato fu in parte sconvolto e in parte reso inabitabile; a Pizzinni non vi furono morti, ma il villaggio fu totalmente disastrato. Filandari invece sopravvisse e divenne punto di riferimento per gli abitanti di quelle frazioni.