Il matrimonio in Calabria: ”Affare di famiglia”

Il titolo che ho scelto ha un vago “sapore” di onorata famiglia ma ridiamoci su, amo raccontare la nostra Calabria di un tempo quando l’onore di una donna era sopra ogni cosa. Quando una giovane donna si accingeva all’età da marito le sue uscite si facevano davvero sporadiche esse avevano il permesso di uscire solo alle feste di paese e per andare a messa. Altro che Facebook o telefono! Dura era la vita dell’innamorato che per vedere la sua giovane amata doveva

passeggiare interi pomeriggi vicino la sua abitazione. Le chiese poi erano l’unico luogo dove non si potevano “cacciàri mali nominàti “e spesso e volentieri a combinare la cosa era ‘mbasciatùra (ambasciatrice), che organizzava gli incontri per permettere a due innamorati di scambiarsi qualche breve effusione amorosa. Amore fugace fatto di sguardi o di bellissime lettere. Ma se i due innamorati erano divorati dal fuoco ardente dell’amore, in tal caso, avrebbero potuto spegnere solo col matrimonio o con la classica fujitìna (scappatella) la loro incontrollabile voglia di anticipare i tempi. Questo però comportava altri probemi! La serenata era un tipo di comunicazione si andava a cantare sotto il balcone di lei di notte, quando tutti dormivano, ma soltanto lei non riusciva a prendere sonno. L’innamorato usava versi popolari Vinni mi cantu ccà nta chisti strati di nott’e notti, si mi canusciti; port’e finestri chi siti sbarrati, mi salutati a cu’ d’inta teniti E l’innamorato che parte da lontano, riesce a superare tutte le difficoltà del viaggio, ben intuendo la gioia che l’aspetta all’arrivo, dove canta così: Aju partutu di tantu luntanu e vinni apposta pemmu ndi vidimu, e li puntuna mi parènu chjanu, l’arburi riganegli’ e petrusinu. E ora c’arrivai nta chistu chjanu, mi sembra ca lu fici lu caminu; affaccia bella e porgimi la manu, ccavanti mi fa mali lu surinu Ma l’amore per la donna amata, spesso, dava sfogo a componimenti davvero originali e di rara bellezza poetica, che solo il cuore del popolo, semplice e contadino, poteva comporre: Ndaju ‘nu cori quantu a ‘na nuciglia, vaju cercandu ‘na figghjola bella, e non mi mporta s’esti picciriglia, ca mi la crisciu cu viscottineglia, e quand’è randi mi curcu cu d’iglia, facimu ‘u jocu di la palumbeglia Ma destinataria delle serenate non era solo colei che infiammava il cuore dell’innamorato. Di riflesso, qualche volta, la serenata era indirizzata anche alla madre di lei, che non voleva che la figlia si fidanzasse. Al suo cuore, il futuro genero bussava così: O mamma mamma quantu sirinati cu ‘na figghjola bella chi ndaviti; vogghju mi sacciu si la maritati oppuru si nta casa v’‘a teniti Succedeva anche che destinatario della serenata, qualche volta, fosse anche il padre, che si opponeva alla realizzazione di un sogno d’amore, gettando nella più cupa disperazione l’uomo che imprecava anche contro la sfortuna: Occhj nigregli non vi lamentati ca non è curpa mia, vu’ lu sapiti; curpa la me’ furtun’ e vostru patri, non vonnu ca di mia patruna siti Le serenate non raccontavano solo storie d’amore, ma anche di sdegno e di disperazione per un amore non corrisposto: Sdegnu chi mi sdegnast’ ‘u cori tantu, non pozzu mi ti vij’ e mi ti sentu; quandu viju lu diavulu no schjantu, ma quandu viju a ttia schjantu e spaventu E l’innamorato, che per lei era anche finito in carcere, canta con parole di odio il suo amore finito: Fu’ carciaratu a li carciari toi e non venisti mu mi vidi mai. Tu mi mandasti lu cafè d’aloi e pe d’amuri toi mi lu pigghjai. Mò va’ dicendu ca mortu mi voi, ma pe’ dispettu toi non moru mai. Ma mori prima tu e la genti toi, mu si distruggi ssa rrazza chi ndai Ma quando lo sdegno era alimentato da un odio molto profondo, l’innamorato non aveva peli sulla lingua nel dichiarare alla sua ex-amata/odiata tutto il suo disprezzo: O facci di ‘na brutta carcarazza, tu porti migli diavuli pa trizza; va’ a trovari ccocchjunu mi t’ammazza c’a mmia mi resta tanta cuntentizza Le canzoni di sdegno, che erano l’altra faccia dell’amore, hanno da sempre arricchito le pagine della letteratura popolare, quasi sempre orale, facendosi portavoce di un risentimento che sconfinava spesso nella vendetta verbale dell’innamorato, il quale ironizzava sull’onorabilità dell’amata, che lascia il suo innamorato e cede alle promesse di altri spasimanti: Campana chi si’ fatta di mitagliu e ‘ncùdini chi batti ogni martegliu, gaglina cavarcata d’ogni gagliu e ficu pizzicatu d’ogni arcegliu Succedeva, qualche volta, che l’innamorato fosse minacciato di morte, nel caso in cui non si fosse allontanato da quella ragazza o avesse continuato a fare di lei l’oggetto delle sue serenate notturne: E nta sta ruga m’annu minazzatu ca si passu di ccà je’ campu pocu. Je’ passu e spassu com’a ‘nu dannatu pacchì la vita mia la penzu pocu. Ogniu spicuni ndavi ‘n’omu armatu, ogni finestra ‘na bampa di focu Ma anche contro i vicini di casa, che avevano la brutta abitudine di criticare due giovani che parlano senza essere ufficialmente fidanzati, si possono scagliare gli strali del risentimento dell’innamorato: E nta sta ruga nc’è ‘nu malu diri ca jeu mancu cu ttia pozzu parlari; subitamenti si mentunu a diri: «Chiglia è la nnamurata di lu tali. Focu mi cadi di li ciaramidi e pammi bruscia cu’ ndi parla mali» Tuttavia questa bella carrellata di canti locali e che definiscono in toto come si viveva l’amore e soprattutto che l’amore temeva le malelingue capaci anche di distruggere i matrimoni con disperate dicerie. Una delle paure fondamentali che una ragazza fosse sulla bocca di tutti e queste dicerie si placavano solo quando la notizia che “u m’basciaturi iu i paisa” placava le dicerie. Chi doveva fare l’imbasciata doveva essere una persona autoritaria che entrasse in casa” cu pedi destru” un rito da fare! E dire «Trasìa c’‘u destru e ccà mi restu». Poi si passa a chiedere la mano della ragazza e attende che il futuro suocero si pronunci se era si! Pochi giorni e il futuro sposo entrava in casa. Qualche volta, però, la richiesta di fidanzamento, come si usava in tanti paesi, in tempi piuttosto remoti, avveniva tramite un ceppo di legno (ccippu) che l’innamorato metteva di notte dietro la porta dell’innamorata. Al mattino, quando il padre della ragazza, aprendo la porta di casa, lo avesse visto, avrebbe dovuto dire: «Cu’ m’‘a ccippau ‘a figghja mia?». L’innamorato, che stazionava nei pressi di quella casa per conoscere la risposta, avrebbe dovuto rispondere: «Eu vi la ccippai» . Se il padre era contento del giovane che l’aveva richiesta, portava dentro casa il legno, altrimenti lo avrebbe invitato a riprenderselo. I futuri sposi si dovevano scambiare l’oro i mobili erano a carico dello sposo la donna portava “ u corredu o biancheria”. La dote per i ceti medio-bassi era costituita prevalentemente da: trenta paia di lenzuola; trenta paia di cuscini; trenta coperte; trenta asciugamani di cui un quarto fatte in casa, un quarto di lino e le altre di spugna e due servizi completi per bagno. Ai quali si aggiungevano: dodici servizi da tavola per sei persone e dodici per sei; trentasei strofinacci e dodici paia di capi di biancheria intima di seta e di flanella. Inoltre servizi di bicchieri, piatti e posate. Il rito più bello è la preparazione del talamo nuziale un momento di grande partecipazione non solo di parenti e amici, ma anche di semplici conoscenti e vicini di casa. Sulla coperta di seta, che non era mai stata messa sul letto, venivano eseguiti con monetine e confetti disegni raffiguranti temi d’amore, come due cuori trafitti da una spada. I parenti più abbienti ostentavano il loro regalo in denaro, depositandolo sul letto quando tutti erano presenti, in banconote, mentre i più poveri lo facevano sempre di nascosto e con monetine di poco valore. Il compare, rigorosamente, veniva scelto tra le persone più influenti del paese, che poi erano quelle che avevano anche i soldi e si potevano permettere, quindi, un regalo abbastanza costoso. Il comparato in Calabria era un rito sacro! Dopo le foto di rito al matrimonio si gettano monete e confetti in piazza, gli sposi poi passano su un tappeto di monete come augurio di prosperità il pranzo nuziale lo svolgeva chi poteva permetterselo altrimenti un sontuoso banchetto di dolci era immancabile. La musica era fatta con una radio e si poteva ballare il tango persino. La mazurca era per gli invitati più anziani si pensava a tutti e poi l’eterna e sempre verde tarantella. All’indomani, la madre della sposa si premurava di portare ai due colombi il primo caffè della loro vita coniugale, dopo una notte passata dalle due famiglie degli sposi col cuore in gola, in attesa del responso della notte d’amore appena passata, che tutti volevano conoscere. E quando, poi, finalmente, giungeva l’ora della notizia tanto attesa, la mamma faceva sventolare come una bandiera dal balcone di casa sua la “prova” inconfutabile che la figlia era onorata.


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