Ho sempre desiderato presentare il mio saggio nella casa Ricadese di Giuseppe Berto, sogno realizzato la scorsa estate grazie alla presenza della figlia Antonia che ringrazio teneramente. Un saluto particolare alla signora Manuela che ha apprezzato il mio saggio. Un desiderio nato dalla lettura dei suoi romanzi e da molte note stilistiche che mi avvicinano allo stile di Berto. Anch’io come lui utilizzo poca punteggiatura dovuta a questa mia smania di voler gettare giù i pensieri in modo da non dimenticare nulla. Ecco questo stile Bertiano è anche mio! Ma chi fu Giuseppe Berto? Berto nacque a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914 e morì a Roma il 1º novembre 1978 ma riposa nel cimitero di Ricadi (VV) nella stessa Ricadi dove l’autore scrisse i suoi capolavori. La Calabria divenne la seconda casa di Berto ed è qui che scrisse Il cielo è rosso, Il male oscuro, dopo una vita avventurosa scelse ed amò la Costa degli Dei come una musa ispiratrice. Figlio di umili genitori Giuseppe si impegnò molto nello studio ma il diniego del padre di mantenerlo all’’università fu un brutto colpo. Fu costretto per mantenersi ad arruolarsi e venne spedito in Sicilia e nel mentre studiava Lettere a Padova dove frequentava i caffè letterari. Nel ’40 scoppia la guerra nuovamente e Giuseppe si dedica all’insegnamento ma non era quella la sua vocazione. Giuseppe amava l’arte la pittura e la scrittura come dire contrario visto la sua vasta ed eccellente produzione. Conobbe la prigionia, i corpi speciali ed infine la malinconia. Tornò dalla prigionia con molti racconti che cominciarono a farlo conoscere al grande pubblico grazie al Romanzo Il cielo è Rosso! Romanzo questo apprezzato all’estero e incensato da Hemingway. La sua vera fortuna fu il Male oscuro in primis rifiutato da molti editori poi in poche settimane vinse premi molto ambiti. Fu un vero caso letterario Giuseppe percorre le tappe del suo malessere psichico tanto che quest’aria di rinnovamento porterà Monicelli a trarre un film. Poi venne il periodo calabrese nel Male oscuro così Berto uno dei neorealisti dipinge la sua casa di Ricadi:” “l’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (…) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (…) ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte” . In Calabria Giuseppe si estranea dalla vita politica e centellina i salotti culturali ma ama questa terra come pochi. Egli stesso rimproverava i calabresi di avere una terra così spettacolare e deturparla in modo sadico. L’osservazione più lucida e oggettiva mi sembra questa: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. Temo che salvare quanto rimane del paesaggio e dell’antica civiltà calabrese sia impresa disperata. Infatti c’è da lottare contro forze soverchianti. E non si tratta soltanto di scarso senso civico, per cui il calabrese è prepotentemente portato ad anteporre il bene proprio al bene comune (succede quasi ovunque). Né soltanto di ignoranza, per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze, ancorché prepotenti, si potrebbe combattere. Il guaio più grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. E’ comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà – e anche un paesaggio vergine appartiene alla civiltà contadina. Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile… I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniale”. Berto sarà amato dai Ricadesi e da chi giovane come me apprezza i suoi testi!