
Alcuni mesi prima del fatidico 1848, anno delle rivoluzioni in Italia e in Europa, Reggio Calabria si sollevò contro il regime borbonico il 2 settembre del 1847.La Calabria aveva dimostrato precedentemente in più occasioni di aspirare ad una forma di governo intriso di idealità e princìpi costituzionali.
Il contesto delle rivolte risorgimentali e la memoria dei martiri calabresi
Tra i numerosi episodi che segnarono la lunga e tormentata marcia del popolo italiano verso l’unità nazionale, uno dei più dolorosi e al contempo significativi si colloca tra l’insurrezione di Cosenza del 1837 e la tragica uccisione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, avvenuta nel 1844. In questo periodo turbolento, segnato da una fitta sequenza di tentativi insurrezionali e dure repressioni, si consumò una delle pagine più cupe della lotta patriottica. Il 10 luglio del 1844, a seguito dell’ennesimo tentativo di sollevazione popolare contro il regime borbonico, trovarono la morte sette giovani patrioti, colpevoli solo di aver sognato un’Italia libera e indipendente. Si trattava di Pietro Villacci, originario di Napoli, di appena 26 anni; Raffaele Camodeca, di Castroregio, 25 anni; Federico Franzese, di Cerzeto, anch’egli di 25 anni; Antonio Raho e Nicola Corigliano, entrambi di Cosenza e di 30 anni; e infine Santo Cesareo, di San Fili, anche lui ventiseienne. Furono tutti condannati alla pena capitale e fucilati l’11 luglio 1844, in un’esecuzione che doveva servire da monito e da deterrente, ma che invece suscitò un’ondata di indignazione in tutta la Penisola e anche oltre i confini del Regno delle Due Sicilie.
Altre condanne a morte, pronunciate nello stesso contesto, vennero commutate in pene detentive durissime: ergastoli o lunghi anni di reclusione nei carceri del regno. Ciò testimonia la vastità e la determinazione del moto insurrezionale che aveva preso piede nella città di Cosenza nel 1844, coinvolgendo strati sempre più ampi della popolazione, desiderosa di cambiamento e di libertà. Particolarmente drammatica fu anche la repressione della rivolta di Reggio e del sacrificio estremo dei martiri di Gerace, la cui fine violenta suscitò ovunque un profondo senso di sdegno e di commozione. Questi eventi non passarono inosservati alla stampa dei Paesi liberi, che ne diede ampia diffusione, contribuendo a far crescere la coscienza patriottica in tutta Europa. Cari lettori, di ogni episodio menzionato ho trattato in maniera più dettagliata all’interno del blog, dove troverete approfondimenti, fonti storiche e riflessioni personali su ciascuna vicenda. Il clamore suscitato da queste tragedie colpì profondamente anche la società civile del tempo. A Milano, ad esempio, le dame dell’alta borghesia e dell’aristocrazia adottarono una moda particolare: cominciarono a indossare un cappello detto “alla calabrese”, come segno tangibile di solidarietà verso i patrioti del Sud e le loro famiglie, che pagavano con la vita la loro adesione alla causa dell’indipendenza. Tuttavia, il gesto non passò inosservato agli occhi attenti della polizia austriaca, che nel febbraio del 1848 emanò un decreto esplicito che vietava l’uso di tali copricapi. Il decreto faceva riferimento al divieto “di portare qualsiasi segno distintivo politico, simbolico o di riconoscimento”, in un tentativo di soffocare anche le più sottili forme di protesta civile. Ma lo spirito patriottico non poteva essere così facilmente represso: i sostenitori della causa nazionale trovarono il modo di aggirare il divieto, adattando i cappelli tradizionali con una fibbia frontale e sollevando il pelo del feltro su un lato, in modo da evocare, seppure vagamente, il copricapo proibito. Fu così che le polizie austriache, papaline e borboniche si videro costrette a intervenire nuovamente, vietando anche queste versioni “camuffate” dei cappelli, giudicate “sovversive”. Un dettaglio apparentemente minore che però testimonia quanto profondo fosse il legame tra simboli, memoria e lotta politica in quel periodo: persino un cappello poteva diventare un atto di resistenza.

Coloro che indossavano quell’abbigliamento finivano spesso in prigione, accusati di sedizione o di simpatie rivoluzionarie. Eppure, le donne milanesi non si lasciarono intimorire. Al contrario, con coraggio e determinazione, fecero propria quella moda carica di significato politico e patriottico. Scelsero anche loro di adottare il cosiddetto vestito alla lombarda, un abito che andava ben oltre la semplice apparenza estetica: si trattava di una vera e propria dichiarazione d’intenti. Il loro abbigliamento era composto da una giacca da amazzone in velluto, spesso elegantemente rifinita e, talvolta, aperta sul davanti per lasciare intravedere una sottana candida, realizzata in raso o in lana, a seconda della stagione o del rango sociale. Il tutto era completato da accessori che non lasciavano spazio a dubbi circa le loro simpatie politiche: fusciacche tricolori strette in vita con orgoglio, cappelli alla calabrese dalla forma decisa, e persino, incredibilmente, armi come pistole, spade e sciabole di cavalleria. “Dio glielo perdoni”, annota con una punta di ironia e stupore Giovanni Visconti Venosta, testimone di quei tempi. Ma non finiva qui. In alcune occasioni, queste donne audaci indossavano lunghe sciarpe tricolori che sventolavano al vento come vessilli di libertà. Quando non portavano il cappello alla calabrese, il capo veniva elegantemente coperto con un ampio velo nero o una mantiglia di pizzo, trattenuta con uno spillone e lasciata ricadere morbidamente sulle spalle e lungo i fianchi, avvolgendo la figura in un’aura di mistero e fierezza. Quel particolare cappello, il cappello alla calabrese, non fu un semplice accessorio di moda, ma rappresentò l’ennesimo, silenzioso ma potente contributo dei Calabresi alla causa dell’Unità d’Italia. Un simbolo importante, denso di significati, di cui approfondiremo presto la storia e l’evoluzione. Conoscerlo meglio sarà un modo per comprendere più a fondo il legame tra moda, identità e lotta per la libertà in quel periodo cruciale del nostro Risorgimento.

